Abascal: "Non c’è calcio senza metodo e sentimenti"

Di seguito una bella intervista curata da Marcello Pellizzari, al tecnico rossoblu Abascal, che nella giornata di ieri ha occupato un'intera pagina sul Corriere del Ticino.

L’appuntamento è per mezzogiorno in punto davanti al Riva IV. La squadra ha appena concluso l’allenamento del mattino, mentre gli operai lavorano alla posa dei nuovi fari. Guillermo Abascal Perez esce dallo spogliatoio e ci invita a seguirlo in tribuna, dove solitamente si accomodano i giornalisti. «Guarderei da qui ogni partita» dice sorridendo l’allenatore del Chiasso. «Guille», spagnolo di Siviglia, ha appena 28 anni. Eppure, è come se facesse da sempre questo mestiere. «All’età non ho mai pensato» aggiunge.

Mister, semplicemente: come va?
«Dopo dieci settimane in Ticino direi bene. Il Chiasso non ha ancora raggiunto il livello immaginato nella mia testa. Ma può vincere ogni partita. E sul piano tattico non siamo secondi a nessuno».


Sette punti in cinque partite e percentuali di possesso tipicamente spagnole. Perché è così importante per lei avere il pallino del gioco in mano?
«Se abbiamo noi la palla significa che non ce l’hanno gli avversari. Il mio non è un possesso fine a se stesso. Il Chiasso deve fare la partita, trovare il momento giusto per colpire e, qualora perdesse il pallone, andare subito in pressing. Avere la palla ti dà tempo, spazio e possibilità di vincere. La maggior parte delle grandi squadre ragiona così. Poi, è vero, c’è chi sceglie e ha scelto altre strade: il Chelsea di Roberto Di Matteo che vinse la Champions o l’Atletico Madrid. Ci sono allenatori che prediligono il lavoro senza palla. È una strategia e può essere pagante. Ma per come la vedo io, se hai un possesso dell’80%, occupi costantemente l’altra metà e sei aggressivo, beh, hai più chance di fare gol».

Il possesso palla in Spagna è una vera e propria filosofia. Conferma?
«È un modo di pensare, più che altro. E si nota già nei settori giovanili. Anche squadre meno profilate come Malaga, Almeria, Granada, Villarreal, Deportivo e Celta Vigo insegnano ai ragazzi ad amare il pallone. Se non hai la palla, devi fare un lavoro incredibile a livello di concentrazione e attenzione. E finisci per non divertirti».

Dunque il Chiasso si salverà giocando e divertendosi?
«Non dovrà salvarsi aspettando l’avversario e andando in contropiede. Ho a disposizione molti giovani promettenti: affinché un domani calchino determinati palcoscenici, devo fare in modo che siano protagonisti in campo. Se manterranno un atteggiamento attendista e difensivo, non raggiungeranno mai il livello necessario».

Prima del Riva IV lei aveva allenato soltanto squadre di ragazzi. Quanto è cambiato il suo lavoro in Ticino?
«Sul piano tattico per niente. Certo, è un altro calcio nella misura in cui i corpi degli atleti e i tempi delle giocate sono diversi. Ma il lavoro non è cambiato e di riflesso neppure il mio obiettivo. Per me è fondamentale che un giocatore pensi a quello che fa. Ed è fondamentale che si alleni ad un livello superiore rispetto alle partite, perché così in campo trova i cosiddetti automatismi».

Lei non ha nemmeno 30 anni eppure allena giocatori più vecchi di lei. Un po’ come Julian Nagelsmann, tecnico dell’Hoffenheim. Come si fa ad essere giovani e autorevoli?
«Non ho mai pensato che la mia età fosse un limite. È importante avere un metodo. Se osservo, analizzo e faccio riflettere i miei giocatori attraverso schemi, situazioni e strategie, allora guadagno fiducia e credibilità anche fra i senatori. Finora sono sempre riuscito a trasferire in partita i concetti lavorati durante la settimana».

Ha giocato nelle giovanili di Barça e Siviglia. Cosa le è mancato per diventare un calciatore professionista?
«La motivazione. A 14 anni giocavo nel Barça assieme a Jordi Alba, Giovani dos Santos, Bojan Krkic e Iago Falque. Loro adesso sono nel pieno delle rispettive carriere, io invece sto iniziando quella di allenatore fra i grandi. Diventare calciatore era il mio sogno. Ma, appunto, è mancato qualcosa. In particolare, una volta ritornato a Siviglia non trovai un mister in grado di stimolarmi: avevo la netta sensazione di non imparare abbastanza. Avrei dovuto trovare dentro di me le motivazioni per continuare, ma non ci riuscii. Provai anche ad andare in Portogallo, sfruttando uno scambio universitario. Ma non funzionò: giocai ancora per qualche mese in Algarve, senza ritrovare la verve perduta».

E l’idea di allenare allora com’è nata?
«Giocando. E rendendomi conto che in campo avevo una visione globale della squadra. Sapevo sempre dove si trovavano i compagni e prima che arrivasse la palla sapevo già a chi darla. Devo dire grazie al Barcellona: è il club catalano ad avermi trasmesso questo bagaglio. Nel settore giovanile del Siviglia, poi, ho unito gli insegnamenti del Barça ai miei studi universitari in scienze motorie».

E perché mollare un lavoro sicuro nel Siviglia per rimettersi in gioco lontanissimo da casa, in una realtà piccola e difficile come Chiasso?
«Perché allenare fra i grandi era quello che volevo. Avevo altre offerte, ma la Svizzera mi è sembrata sin dal principio la soluzione migliore. Da fuori il calcio elvetico mi sembrava vivo. Se mi avessero proposto l’Irlanda o l’Inghilterra avrei detto di no: là non si può fare il calcio che ho in testa».

Come le sembra, ora che lo vive da vicino, il calcio svizzero? Si avvicina ai suoi ideali?
«In parte sì. Ho guardato le partite del Lugano e quelle di Challenge, ma ho visto anche San Gallo, Losanna, Sion e Basilea. In generale qui si pratica un calcio che definirei buono. Però è ancora lontano rispetto al mio. Sono un tipo particolare, sarà per via dei capelli rossi. Mi considero una rarità per il tipo di calcio che propongo, soprattutto a livello di fase difensiva e pressing. Mi rivedo nei principi di Bielsa e altri suoi discepoli: se perdo palla, devo recuperarla subito. Vicino alla porta, che magari ci scappa il gol. Qui invece vedo ancora troppe squadre indietreggiare metri su metri per poi aspettare l’avversario».

Lei si definirebbe un fissato? Quanto tempo dedica al calcio?
«Pur avendo altri interessi come tutti, ora come ora ho poco tempo libero. Il calcio occupa i miei pensieri anche quando non vorrei. È più forte di me. Passo giornate intere a parlare di pallone o a visionare partite, in particolare quelle di venti o trenta anni fa. L’anno scorso a Siviglia giocavo sempre a paddle tennis con Juan Manuel Lillo, all’epoca vice di mister Sampaoli. Dopo aver sudato sul campo ci prendevamo cinque ore, tre-quattro caffè e parlavamo di schemi, situazioni, allenamenti. Era sempre lui ad avviare le discussioni, io spesso ascoltavo in religioso silenzio. Ecco, se volete farmi un regalo ditemi: ‘‘Guille’’, andiamo a mangiare qualcosa, a berci qualche birretta così parliamo un po’ di calcio».

Come mai guarda partite vecchie?
«Ci trovo tante chicche che poi uso nel mio lavoro. Un movimento, un’uscita dal pressing, un tre contro due, oppure un attaccante che crea spazi ai compagni. Mi è capitato di guardare vecchie partite dell’Olanda o della Germania e di annotarmi uno schema poi proposto ai miei giocatori. In linea di massima non mi impongo un menù. Non decido quante e quali partite guardare. Però non mi siedo sul divano senza un foglio e una penna».

Quanto le dà fastidio essere giudicato unicamente in base ai risultati?
«Molto. Di Matteo vinse la Champions con il Chelsea e ricevette i complimenti. Eppure a me la sua idea di gioco non piaceva. In generale, non mi piace il fatto che il risultato passi sempre per la cosa più importante. D’accordo, in un mondo come il nostro e considerando i soldi in gioco è quasi un obbligo avere successo. Credo però sia importante il modo, il come. Togliere la bellezza alle vittorie è come togliere il cuore ad una persona. Senza cuore potremmo amare o provare emozioni? Un calciatore deve apprezzare ciò che fa. Se una squadra non ha un sentimento collettivo e un modo di fare, non gioca a calcio».

Torniamo un attimo indietro: davvero il Chiasso può salvarsi così?
«Se io fossi un dirigente e dovessi scegliere un allenatore, non lo prenderei in base ai risultati ottenuti in passato ma in base al suo metodo di lavoro. Bielsa ha vinto poco rispetto ad altri, però ha portato a livelli altissimi tanti calciatori. Ribadisco, il risultato è importante ma non è tutto. È sbagliato associare alla salvezza un certo modo di giocare e una determinata tipologia di calciatori. Per evitare la retrocessione non devi avere per forza di cose dei brocchi e puntare tutto sul contropiede. Conosco tanti colleghi che rimangono abbottonati e aspettano l’avversario. Io dico che ti salvi solo giocando a pallone. Il calcio è un gioco e va interpretato al meglio».

È ancora un gioco quando il Paris Saint-Germain versa 222 milioni di euro al Barcellona per avere Neymar? Con quei soldi il Chiasso farebbe più di cento campionati in Challenge.
«In alcuni casi non è più un gioco. La vicenda Neymar non mi è piaciuta da un punto di vista sportivo, innanzitutto: non lasci la Liga per un torneo meno competitivo come la Ligue 1. Quanto all’aspetto economico, è vero che la carriera di un giocatore è molto corta e bisogna monetizzare il più possibile. Ma Neymar era già strapagato: fa davvero la differenza a quei livelli guadagnare tot milioni in più? Nel calcio di oggi passa il messaggio sbagliato. Ovvero, che i soldi comprano tutto. I giocatori e di riflesso le vittorie. Non è così, perché il PSG nell’ultima Champions è uscito proprio contro il Barcellona mentre il Manchester City nelle ultime sessioni di mercato ha speso 500 milioni di euro senza venirne a una. Di fronte a certe spese folli mi rallegro di considerarmi un ‘‘casero’’. Sono un tipo semplice. A me piace stare in panchina, girarmi verso la tribuna di tanto in tanto e vedere i tifosi sorridenti e felici».

In conclusione, dove sarà Guillermo Abascal Perez fra dieci anni?
«Non saprei. Ma al momento il mio obiettivo è rimanere il più a lungo possibile in Svizzera. Voglio impormi qui, assaporare ogni aspetto del Paese e progredire come tecnico. Non avverto il bisogno di tornare in Spagna, anche se la formula del campionato elvetico è da rivedere: mi pare poco competitiva».